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giovedì 2 novembre 2017

S-Memoria (Una Persona Fortunata)

Mio nonno, col quale avevo giornaliera consuetudine, raramente raccontava episodi della I guerra mondiale, nel cui gorgo era stato risucchiato a 23 anni.

Le domande al contempo ingenue e trepidanti, se avesse mai ucciso qualcuno, restavano inevase, al massimo si meritavano una risposta negativa.

Mio zio di Bracciano l'ho invece incontrato poche volte.
Aveva fatto la II guerra mondiale, era stato anche in Russia e una volta sola accennò, mordendosi poi pentito il labbro, alle battaglie combattute coi lanciafiamme.

Di nonno abbiamo anche conservato un breve ma incisivo diario di guerra, donato all'Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.

Entrambi, nonno Piero e zio Bruno, avevano lo sguardo fisso in un luogo interiore, al narrare questi brevi frammenti, quasi estorti loro con l'inganno.

Entrambi, credo, non avevano mai chiuso i propri conti personali con la guerra, portandosi appresso o una scheggia nelle ossa della testa o ricordi di urla che si disgregano in cenere.

Nell'ascoltare i loro accenni, nell'osservare con pudore i loro sguardi velati, sin da bambino mi ritenevo una persona fortunata.

Fortunato io e tutta la mia generazione ad esser nati indenni dallo strazio e dagli indicibili orrori della guerra, nonostante fossi nato appena 15 anni dopo.

Ho sempre pensato che, così come con certi miracolosi vaccini diffusi intorni ai primi anni '6o, anche verso la guerra avessimo sviluppato una qualche immunità.

Purtroppo mi devo ricredere.

A volte ho l'impressione di essere l'unico ad aver avuto nonni o zii che in guerra ci sono stati veramente e veramente mi han fatto capire, senza quasi parole, quale strazio essa sia.




la Grande Guerra 1914-1918 -- Pietro Storari


25 aprile minuscolo

Un Popolo

La Memoria E Il Furore

Rispettare la paura

Solidarietà nazionale

martedì 25 luglio 2017

Visto Dal Basso

L’altra mattina ero già sveglio quando lui mi ha portato la colazione.

Il cibo era più abbondante del solito e allora gli ho fatto quegli occhi così dolci come solo a me riesce.

È rimasto seduto sul divano ad aspettare che ripulissi di gusto tutto il piatto.

Se non era per me, nella casa c'era tutto silenzio, così ho abbassato la voce, ma mentre lo abbracciavo ho sentito che grosse lacrime uscivano dai suoi occhi fino a bagnarmi tutto.

Allora ho pensato che forse non mi ero pulito bene o che avevo qualcosa di sbagliato, magari una malattia che lo preoccupava.
Mentre aspettavo che mi passasse la corda ho anche notato una cosa strana.

Lui continuava ad annodarla e scioglierla in un modo strano e complicato, l’ha persino legata a un gancio, tirandola poi con tutte le forze.

Dopo però mi ha scostato i capelli dal viso e mi ha dato un bacio, ci siamo ancora abbracciati stretti stretti e allora ero di nuovo tranquillo.

Ma quanto ho tremato poi, vedendo che se ne andava senza di me, chiudendo rapido la porta senza voltarsi e senza un saluto, lui con la nostra corda e io abbandonato lì da solo a singhiozzare.

Per quanto mi sforzassi di pensare, non trovavo nulla di brutto che avessi combinato di recente e per cui mi meritassi un castigo così terribile.

Mi sono anche ricontrollato tutto e ho visto che mi ero lavato bene come al solito, pronto per la passeggiata.
E allora perché?

Dopo ci si è messa anche la pipì, che mi scappava tanto, ma io mi sono sforzato di trattenerla e ci sono riuscito.

Ormai rassegnato ad aspettare che lui tornasse, più tardi ho sentito una sirena avvicinarsi, un’auto fermarsi fuori casa e il campanello suonare.
La moglie, che prima parlava con voce tesa al telefono, corre ad aprire agli uomini e alla donna con le pistole.

Loro sembrano molto imbarazzati, non sanno che parole usare, ma lei capisce e aggrappata alla poliziotta mora inizia a piangere.
Piange e piange e piange.

Così io mi sono fatto coraggio e con cautela mi sono avvicinato, scodinzolando piano piano, perché improvvisamente anche a me veniva da piangere e dovevo stringermi a qualcuno.

Per fortuna lei sente le unghie dei miei passi sul pavimento, si gira, resta qualche secondo interdetta e infine mi prende in braccio.

Allora io inizio a leccarle delicatamente ma con decisionemtutto il viso, una volta e poi un’altra, e poi non la smetto più.


Perché ho capito che lui, col nostro guinzaglio, si è incamminato per una passeggiata lunghissima, così lunga che il mio piccolo cervello non riesce a immaginarne la fine.


**** liberamente ispirato ad una tragica notizia di cronaca

lunedì 17 luglio 2017

Grazie, collega Massimo

E' quasi un anno che Massimo ha cambiato lavoro.

Dopo decenni al servizio dei cittadini sulla strada, tra sirene, asfalto, pioggia e sole che ti spacca, tra alluvioni e terremoti.
Un lavoro duro che io mai sarei stato capace di fare, ma che Massimo amava e svolgeva con competenza e sensibilità.

Poi due righe su un decreto, e non sai più chi sei, né che diventerai.
Per lui e per i suoi colleghi è stato uno schiaffo, la gratitudine che trasmuta in avvilente beffa.

Noi, "gli altri", però, li abbiamo attesi ed accolti.
Niente asfalto e ambulanze, solo un po' di adrenalina da scrivani.
Però c'abbiamo messo il cuore.

Magari solo i primi giorni, ma li abbiamo dedicati tutti a loro, a Massimo e ai suoi colleghi.

Prima di incontrarli abbiamo pensato ed immaginato la frustrazione, anche il rancore con cui sarebbero saliti in macchina per varcare la soglia di un altro ufficio completamente sconosciuto, reietti ed esiliati

Ora Massimo, ogni volta che ci si vede, mi dice che ricorda con piacere quei primi giorni, e il respiro di sollievo che lui e i suoi colleghi han potuto trarre.

Anche adesso, con nuovi colleghi anche loro fidati, è al servizio dei più deboli, seppur dietro una scrivania ed un pc.

Massimo non perde occasione per ringraziarmi e per sollecitarmi a scrivere di quella esperienza.

Ora che l'ho fatto, caro Massimo L., so di averti solo in parte ricambiato, per l'emozione di avermi tu fatto sentire utile nel mio, di lavoro.

mercoledì 10 maggio 2017

Le Bombe E La Caramella

La sofferenza tutti ci accomuna
e tutti ci sorprende.
Come l’abbraccio di un boa.
Come il contorcersi stupito di foglie
accartocciate all’abbraccio del vento.

Ebbi già occasione di confessarmi soggetto iper-protettivo e buonista, addirittura (!) fautore del meno-peggio.

Presentivo che se il tempo del dolore fosse poi arrivato, era indispensabile un serbatoio di ricordi soffici, per sembrare meno aspri gli anni della sofferenza.

Ma anche quelle memorie care perdono forza e col tempo diventano triste elegia di tutto ciò che sarebbe potuto essere… ma no.

So bene che vi sono tante, forse infinite cause di dolore, comprese la fame e le bombe, ma ognuno deve tenersi quello che gli è toccata in sorte.

Non si bara col destino, non sono ammesse scorciatoie, e così come non se ne può scegliere una più leggera, neppure è ammesso prendersene una più grave, di sofferenza.

Certo che per la politica, per la legge, per la scienza e per la pubblica sanità, è giocoforza fissare delle priorità.
Il vivere sociale civile sta proprio nel fissare mete e confini e, pure nel comune discorrere e pensare, ovviamente giusta è la spontanea stesura di una graduatoria dei dolori.

Un conto è venir dilaniato da una mina che ci strappa gli arti, altro conto è la depressione nevrotica di chi, in paesi pacificati e opulenti, si crede vittima di congiure immaginarie, altro ancora è essere affetti da quello che con ipocrisia definiamo normale (!) disagio adolescenziale.

Ma lasciatemelo dire, al di là di ogni ragionevole dubbio… ed oggettività: il dolore di cui ciascuno soffre è sempre quello, è sempre uguale per tutti.

Le lacrime dell’adolescente italiano angariato dai coetanei hanno lo stesso sapore delle lacrime di chi ha perso il braccio in battaglia, uguale a quelle del bimbo che ha perduto una caramella.

Per quanto diverse e incomparabili tra loro siano le cause e gli effetti oggettivi, ogni dolore, in un dato spazio-tempo, è sempre il più atroce che potremmo sopportare.


domenica 12 febbraio 2017

Il Banale E L'Ingordo (benedetto festival)

Essendone mia moglie appassionata, sin da fidanzati iniziai a seguire il Festival di Sanremo, ma sempre con blanda attenzione.

L’edizione 2017, terminata ieri, per me segna invece una svolta.

Una svolta intravista, sperata e realizzata: mi sono seguito tutte le puntate con attenzione, ma direi soprattutto con voracità.

Quando, in seguito ad un grave malore che ti ha messo in pericolo di vita, passata l’emergenza, vieni ricoverato, capisci che in ospedale, se ti vuoi riprendere, devi comportarti da ingordo.

Quindi dormire ogni volta che ce la fai, mangiare tutto quello che ti viene servito, andare in bagno e lavarti ogni volta che è possibile, non dimenticare di assumere le compresse, controllare che la flebo gocci regolarmente, che l’ossigeno arrivi ecc.

Nessun’ arma da combattimento va trascurata, ma generosamente oliata, allo stesso modo della carne del rancio.
A casa l’olio non lo usi, ma se in ospedale una porzione a pasto te la passano, vuol dire che serve a guarire, e allora fuori tutto.

Insomma, anche tornarsene a casa in tempo per il Festival di Sanremo, è diventata via via una possibilità concreta, e la manifestazione s’è trasformata per me, potendola seguire con mia moglie (mai come in questa occasione duramente provata per causa mia: Paola ti chiedo scusa e ti ringrazio), il segno del recupero e del rientro in una zona di conforto (sì, proprio una di quelle comfort zone che i guru della managerialità tanto schifano).



Niente di speciale, ma anche il festival della canzone italiana, nella sua banalità, può diventare celebrazione di vita, perché poi in fondo, da cosa è costituita la nostra esistenza, se non da un buon 60% di benedette banalità?


benedetta playstation

shock traumatico